Idea Vita afferma il diritto delle persone con disabilità di realizzare un Progetto di vita indipendente dalla famiglia; si tratta di riconoscere e sostenere la naturale esigenza di ogni persona adulta, di realizzare il proprio progetto in un ambiente adatto, che gli consenta una vita dignitosa e la conservazione di affetti e consuetudini, inserito in un contesto che presenti fondate garanzie di permanenza della qualità della vita nel tempo e di rispetto della persona, anche quando i genitori verranno a mancare.
Per le famiglie con un figlio/a con disabilità, la vita adulta indipendente del proprio congiunto rappresenta la maggiore preoccupazione: di norma il suo avvio finisce per coincidere con la scomparsa dei genitori. È prassi comune che i genitori, fino a quando ne hanno la possibilità e le forze, si occupino direttamente, in famiglia, del proprio congiunto. Riteniamo necessario e opportuno un approccio di lungo termine: iniziare il percorso quando i genitori sono ancora presenti riduce il trauma di un distacco improvviso.
Il progetto di vita….. certamente ognuno di noi ha “fatto progetti” nella sua vita, ma questo non ha impedito di cambiare i propri gusti e abitudini, i luoghi e le frequentazioni, le mete delle proprie vacanze e così via. Soprattutto, a ciascuno per fortuna è consentito percorrere strade che mai avrebbe pensato di intraprendere.
Il progetto di vita, inteso come visione dinamica di insieme della persona e delle indicazioni prospettiche sul suo futuro, propone ancora termini e sigle che fanno della prospettiva concreta del ‘dopo di noi’ una definizione rigida e un percorso statico.
Permane quindi il rischio della cristallizzazione, del formalismo, dell’astrazione, ma anche della dispersione della conoscenza dei bisogni della persona. L’unicità dei suoi desideri e delle sue aspettative si ‘congela’ in un presente a cui si chiede di permanere invariato nel tempo, incatenando la possibilità di un domani differente, di un “dopo di noi” in movimento.
Parole da aggiungere….
- Appartenenza delle persone a diversi contesti
- Visione “adulta” della persona in situazione di disabilità
- Possibilità di sperimentare nuovi ambienti
- Spazi di cambiamento personale e dei contesti di vita
Il progetto di vita, se di vita deve parlare, dovrebbe essere prima di tutto il luogo della possibilità, dell’immaginazione, qualcuno direbbe della “creatività” e come tale riguardare tutti i contesti in cui ogni soggetto vive a partire dalla famiglia, come ambiti di osservazione e immaginazione.
Il progetto di vita deve tenere in considerazione la centralità della persona – con bisogni più o meno speciali – in quanto “esistente” nelle diverse fasi della vita, a partire da un qui ed ora che muta e si trasforma.
Parlare di progetto di vita, può far pensare alla possibilità di “progettare la vita” del soggetto con disabilità! Possiamo immaginare inoltre che la deriva potrebbe essere tanto più pericolosa e attraente quanto maggiore è la compromissione della persona disabile: quella di pensare al suo futuro, alla sua possibilità di uscire prima dalla scuola, al modo in cui divenire adulto, ma di pensare tutto questo al posto suo, magari inseguendo un sogno o un’immagine appartenente solo a chi educa o insegna.
Nella prospettiva di progettare la vita, il rischio della cristallizzazione non si supera, si rassicurano gli operatori, a volte i familiari, ma si arriva a soffocare la vita individuale e sociale della persona, ovvero ciò che si produce vivendo, sentendo, emozionandosi, pensando con la propria testa e attraverso le proprie emozioni insieme agli altri, nei contesti più o meno familiari.
La traiettoria di vita….pensare alla vita significa prendersi cura delle “più proprie potenzialità esistenziali” che ogni soggetto può scoprire solo vivendo, solo facendo esperienza di sé, in un luogo in cui non ci si sostituisca a lui, castrando già da subito ogni possibilità soggettiva di sperimentazione perché si è già deciso, sulla base di prefigurazioni diagnostiche, piuttosto che di immagini stereotipate o anche di paure, che quel soggetto potrà essere solo in un certo modo, potrà pensare solo fino ad un certo livello, potrà amare solo attraverso determinate forme.
Occorre, rispetto alle persone con disabilità, innanzitutto allenarsi a “pensare diversamente” o a “pensare oltre” ciò che crediamo di conoscere, ciò che diamo per scontato, diversamente e oltre rispetto a quelle immagini dell’altro o altra che ci vengono consegnate nella documentazione medica/ scolastica/…, attraverso colloqui formali, tramite linguaggi con cui abbiamo poca dimestichezza.
Occorre “disabituarsi” a pensare e ad agire nel modo in cui siamo soliti fare, quindi coltivare le nostre, altre e possibili, possibilità cognitive, espressive, esistenziali.
Se assumiamo la ‘cura’ come paradigma della relazione, l’esercizio a cui siamo chiamati è forse quello da una parte della “dislocazione” rispetto alle nostre più intime e radicate consuetudini di comportamento e di pensiero, di invenzione e sperimentazione di “altri” modi di pensare e di fare, anche la condizione per poterci educare consapevolmente alla cura di chi a noi è stato affidato, perché figlio o figlia, o perché allievo o allieva, o perché ‘utente’, perché sicuramente persona.
Questa è il primo passo, sicuramente soggettivo, che riguarda il modo in cui ognuno di noi ha imparato ad essere se stesso e quindi, consapevolmente o meno, lascia agli altri o determina per loro la possibilità di imparare ad essere sé.
Dall’altra però occorre imparare osservando e apprendere continuamente dall’esperienza, azioni a cui è possibile accedere se in una posizione ‘altra’, scevra da condizionamenti strutturali, che permettano un monitoraggio continuo del percorso di vita di una persona con disabilità.
L’osservazione del percorso…. un costante Monitoraggio della qualità della vita potrà dunque far intravvedere traiettorie di vita possibili, prevedendo decadimenti o costrizioni, interpretazioni unilaterali e riduttive.
Per poter realizzare questo sarà infine necessaria la creazione di alleanze, di sinergie o anche di semplici collaborazioni educative tra gli attori sociali, pedagogici, territoriali, terapeutici che si relazionano nella quotidianità. La costruzione di queste alleanze potrà permettere infatti la predisposizione di esperienze diverse, ma anche che possano permettere alla persona stessa di comprendere e di divenire chi può effettivamente divenire.
Il Monitoraggio del Percorso rappresenta così un fattore di protezione alle cadute di qualità: un operatore sopra le parti, schierato solo con la persona e accanto alla sua fragilità, che segue, osserva ed indirizza al meglio la traiettoria esistenziale, consigliando a famigliari e ADS le possibili e migliori possibilità di vita.